Il visconte dimezzato (1952) by Italo Calvino

Il visconte dimezzato (1952) by Italo Calvino

autore:Italo Calvino
La lingua: ita
Format: epub
editore: Acrobat PDFWriter 4.0 per Windows NT
pubblicato: 2003-04-16T16:00:00+00:00


Il visconte dimezzato (1952)

- Come studioso ella merita ogni aiuto, - gli disse. - Peccato che questo cimitero, abbandonato com’è, non sia un buon campo per i fuochi fatui. Ma le prometto che domani stesso provvederò d’aiutarla per quanto m’è possibile. L’indomani era il giorno stabilito per l’amministrazione della giustizia, e il visconte condannò a morte una decina di contadini, perché, secondo i suoi computi non avevano corrisposto tutta la parte di raccolto che dovevano al castello. I morti furono seppelliti nella terra delle fosse comuni e il cimitero buttò fuori ogni notte una gran dovizia di fuochi. Il dottor Trelawney era tutto spaventato di quest’aiuto, sebbene lo trovasse molto utile ai suoi studi. In queste tragiche congiunture, Mastro Pietrochiodo aveva di molto perfezionato la sua arte nel costruire forche. Ormai erano dei veri capolavori di falegnameria e di meccanica, e non solo le forche, ma anche i cavalletti, gli argani e gli altri strumenti di tortura con cui il visconte Medardo strappava le confessioni agli accusati. Io ero spesso nella bottega di Pietrochiodo, perché era bello vederlo lavorare con tanta abilità e passione. Ma un cruccio pungeva sempre il cuore del bastaio. Ciò che lui costruiva erano patiboli per innocenti. Come faccio, - pensava, - a farmi dar da costruire qualcosa d’altrettanto ben congegnato, ma che abbia un diverso scopo? E quali posson essere i nuovi meccanismi che io costruirei più volentieri? Ma non venendo a

capo di questi interrogativi, cercava di scacciarli dalla mente accanendosi a fare gli impianti più belli e ingegnosi che poteva. - Devi dimenticarti lo scopo al quale serviranno, diceva anche a me. - Guardali solo come meccanismi. Vedi , quanto sono belli? Io guardavo quelle architetture di travi, quel saliscendere di corde, quei collegamenti d’argani e carrucole, e mi sforzavo di non vederci sopra i corpi straziati, ma più mi sforzavo più ero obbligato a pensarci, e dicevo a Pietrochiodo: - Come faccio? - E come faccio io, ragazzo, - replicava lui, - come faccio io allora? Ma malgrado strazi e paure, quei tempi avevano la loro parte di gioia. L’ora più bella veniva quando il sole era alto il mare d’oro, e le galline fatto l’uovo cantavano, e per i viottoli si sentiva il suono del corno del lebbroso. Il lebbroso passava ogni mattina a far la questua per i suoi compagni di sventura. Si chiamava Galateo, e portava appeso al collo un corno da caccia, il cui suono avvertiva da distante della sua venuta. Le donne udivano il corno e posavano sull’angolo del muretto uova, o zucchini, o pomodori, e alle volte un piccolo coniglio scuoiato, e poi scappavano a nascondersi portando via i bambini, perché nessuno deve rimanere nelle strade quando passa il lebbroso: la lebbra s’attacca da distante e perfino vederlo era pericolo. Preceduto dagli squilli del corno, Galateo veniva pian piano per i viottoli deserti, con l’alto bastone in mano, e la lunga veste tutta stracciata che toccava terra. Aveva lunghi capelli gialli stopposi e una

tonda faccia bianca, già un po’ sbertucciata dalla lebbra.



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